Esistesse la fotografia come specialità olimpica, senza alcun dubbio Giancarlo Colombo salirebbe sul podio ogni quattro anni. Comasco, classe 1959, fotografo sportivo di fama internazionale, Giancarlo è perentorio nell’affermare a The Running Club che, su quell’ipotetico podio fatto di scatti capaci di immortalare per sempre il gesto atletico, ci è salito per l’ultima volta. Perché Parigi 2024 è stata la sua ultima Olimpiade al servizio dell’atletica e i suoi scatti li avete ammirati in questi giorni nei nostri articoli a corredo dei Giochi.
Il suo è un curriculum da pelle d’oca, iniziato verso la metà degli anni Ottanta alla corte delle più importanti agenzie fotografiche grazie alle quali, dopo il classico inizio in cronaca, ha potuto dedicarsi alla sua vera vocazione: la fotografia sportiva. Un susseguirsi di incarichi che lo hanno visto seguire calcio, sport invernali, ciclismo, nuoto e la passione più grande, l’atletica.
Dieci Olimpiadi estive, sei invernali, un’infinità di rassegne iridate ed europee. Le sue foto sono state pubblicate dalle più importanti testate giornalistiche nazionali e internazionali. Sue anche molte campagne pubblicitarie per marchi assai noti. Impossibile poi non segnalare, assieme a questa carrellata di eventi, anche il ruolo di Giancarlo come fotografo ufficiale in tutte le maratone più importanti al mondo (le celeberrime Majors) e in Italia.
Tanto per capire meglio di chi stiamo parlando, a Parigi Giancarlo Colombo è stato l’unico fotoreporter assieme al collega della World Athletics a salire in sella a una moto per raccontare con i suoi scatti le due maratone olimpiche. Partiamo proprio da qui, dai 42,195 km molto cari al fotocronista lombardo.
“Ero un piccolo Forrest Gump…”
Sei stato uno degli unici due fotografi autorizzati dal CIO a documentare le maratone olimpiche maschile e femminile seguendo gli atleti in sella a una moto. Avere questo privilegio che tipo di valore aggiunto ti porta?
“Mi aiuta tantissimo. Significa avere almeno il triplo delle situazioni da documentare. Dalla partenza all’arrivo. E durante la gara sei sempre in grado di fissare in immagine quanto accade. Tutti si ricordano di cosa successe alle Olimpiadi di Atene quando quel matto di prete anglicano, Cornelius Horan, placcò il brasiliano Vanderlei De Lima che in quel momento era in testa alla corsa. Ecco, non avrei potuto scattare quella foto. In quell’occasione non ero in moto ma su un furgoncino scoperto. Mezzo vietato a Parigi per limitare l’inquinamento olimpico (Parigi 2024 ha fatto di tutto per diventare l’Olimpiade più ecosostenibile di sempre, nda) sostituito da due motociclette elettriche. Ciò che importa è che ancora una volta ho potuto seguire la gara nel suo insieme e al contempo concentrarmi su ogni singolo atleta lungo tutto il percorso. In prossimità del traguardo scendi dalla moto e ti fiondi sulla finish line”.
Raccontaci allora come sono andate le due maratone olimpiche.
“Maratone organizzate benissimo. Tuttavia, va detto che metà del percorso era strettissimo, praticamente la corsia di una strada, mettici anche il fatto che era interamente transennato. L’aspetto straordinario delle due maratone, soprattutto quella maschile è stata la marea di persone lungo tutti i 42,195 chilometri. Mi ha ricordato la folla degli anni d’oro alla maratona di New York. Sul piano tecnico, devo dire che hanno messo a punto un percorso decisamente impegnativo. Salite vere! Oltre a tanta discesa che gli atleti e le atlete hanno affrontato a velocità pazzesche col rischio di cadere e farsi molto male. Tant’è che non ho mai visto un numero così elevato di ambulanze pronte a intervenire in caso di bisogno”.
Non solo ambulanze, ma anche un imponente servizio di sicurezza.
“Esatto. Era scontato che, per prevenire ogni genere di pericolo il servizio d’ordine fosse ovunque ed estremamente rigido col pubblico nel far rispettare le regole. Dicevo prima che le maratone sono state organizzate molto bene, difficile trovare di meglio dei responsabili di gara del Tour de France. Merito loro se non si è verificato nemmeno un intoppo organizzativo. Rigidi ma bravissimi. Per esempio, a me che ero uno dei due fotografi autorizzati a seguire gli atleti dalla moto è stato tassativamente proibito di affiancarli per fotografarli, pena un primo cartellino giallo (sosta di qualche minuto in fondo al gruppo) e poi l’espulsione, giù dalla sella, ritiro dell’accredito e a casa!”.
Un tuo commento sugli atleti in gara?
“I due podi hanno premiato meritatamente gli atleti e le atlete più meritevoli, non aggiungerei altro. Non mi aspettavo le prestazioni negative di Eliud Kipchoge e di Kenenisa Bekele; mi aspettavo qualcosa di più da Yeman Crippa. Nella gara femminile, la tattica attendista di Sifan Hassan ha consentito all’olandese di superare tutte le avversarie quando ha sentito profumo di traguardo . Visto da vicino, strepitoso il suo spunto finale all’arrivo”.
A proposito di ecosostenibilità, come è andata la moto elettrica?
Moto splendida, elettrica cento per cento: stabilità, maneggevolezza e durata perfetti. Ma un problema lo ha generato. Era così silenziosa che gli atleti non si accorgevano del nostro arrivo e nel superarli si spaventavano”.
Facciamo un passo indietro. Come nasce la tua passione per la maratona?
“Nasce da molto lontano, quando alle elementari e alle medie i miei compagni giocavano a calcio o a pallavolo io, un po’ come Forrest Gump, mi mettevo a correre attorno al campo. Nasceva così il mio interesse per l’atletica. Che ho sempre coltivato nel corso degli anni sino a partecipare a gare a livello regionale. Diciamo che ero uno scarsone e per migliorare, come tutti i tapascioni ho cominciato a iscrivermi anche alle maratone. Poi alle cento chilometri. Ho fatto anche il Passatore. Ecco come mi sono trovato ad appassionarmi alla corsa e all’atletica. E anche da fotografo, dopo la gavetta in cronaca e in guerra – Giancarlo ha documentato quella in Kosovo, nda – ho trovato spazio nello sport e nell’atletica. E dopo quarant’anni di carriera è arrivato il momento di appendere le macchine fotografiche al chiodo…”.
Giancarlo, dici sul serio?
“Confermo, ho chiuso la mia carriera con Parigi. Vado in pensione! Ad aspettarmi c’è la mia amata montagna, da camminare, da scalare”.
Ma le Olimpiadi… si affrontano sempre con la stessa emozione?
“La prima Olimpiade resta sempre la prima. Oggi dopo dieci Giochi Olimpici estivi e sei invernali è chiaro che non può essere più come la prima volta. Lo vedi come un lavoro, da organizzare nel migliore dei modi. Cosa tutt’altro che semplice quando si tratta dell’evento sportivo più importante e coinvolgente a livello mondiale che esista”.
Oltre alla maratona quali altre specialità ti stimolano maggiormente come fotografo e come sportivo?
“Cento metri piani. Non c’è dubbio. LA gara olimpica per eccellenza”.
Invece come fotoreporter inviato alle Olimpiadi qual è la specialità più complessa da fotografare?
“Direi il Decathlon. In due giorni devi fotografare tutte le dieci gare. Una vera maratona. Per il resto, sono sincero, dopo tanti anni non c’è specialità che possa cogliermi impreparato se parliamo di scelta del posizionamento e delle giuste angolazioni. Si acquisiscono degli automatismi che ti devono mettere in condizione di cogliere quelle sfumature che fanno la differenza”.
Gli appassionati vedono poco di ciò che succede al termine di una gara. Il fotografo invece si trova immerso anche nel “dietro le quinte”, a contatto con atleti, preparatori, parenti, ufficiali di gara. Si lavora anche in quel senso?
“Pochissimo alle Olimpiadi, dove le regole sono rigidissime. Meglio, molto meglio ai Mondiali o agli Europei“.
Che consiglio daresti a un giovane fotografo sportivo che volesse diventare un professionista da grandi eventi come le Olimpiadi?
“Se sei bravo, intelligente e hai del talento devi sapere che comunque stai per iniziare a scalare una montagna. Le grandi agenzie fotografiche internazionali hanno ormai monopolizzato ambiente e mercato. A Parigi, per esempio, a seguire l’atletica hanno schierato moltissimi fotografi e sofisticate strumentazioni radiocomandate sparse lungo il campo per scattare a raffica. Capisci che oggi è davvero molto complicato trovare spazio. Anche io agli inizi ho dovuto scalare la mia montagna. Ma raggiungere la vetta, oggi, è diventato ancora più difficile”.
Fra i tanti scatti coi quali hai documentato l’atletica e le Olimpiadi degli ultimi trent’anni quali sono quelli a cui sei più affezionato?
“Potrei dirti che ce ne sono diversi, ma c’è un’immagine che, secondo me, le batte tutte: l’arrivo vittorioso di Stefano Baldini alla maratona olimpica di Atene 2004. Conosco e seguo Stefano sin da quando era bambino, l’ho visto correre e vincere di tutto. E il mio sogno, come il suo, era tagliare il traguardo per primo alle Olimpiadi. Vedere dunque e fotografare un mio amico che trionfa ad Atene nel tempio della maratona rimane una delle esperienze professionali e umane più emozionanti in assoluto. E non è un caso che sia andato tutto alla perfezione. Un giorno fortunato per tante ragioni, per una scelta di angoli giusti. Mi trovavo in campo ma ho preferito restarne appena fuori perché con la coda dell’occhio ho intravisto il prof. Luciano Gigliotti (leggendario allenatore di Baldini e di molti altri campioni dell’atletica, oggi novantenne, nda) che era nell’angolo. Mi sono buttato sotto i piedi del prof, in ginocchio e ho cominciato a scattare. È la mia foto. Il resto è lavoro. Ho scattato ovunque nel mondo e ritratto molti personaggi iconici dello sport. Ma la mia foto è una, è Stefano Baldini. Finisce lì. È storia ragazzi”.
A proposito di storia, gli organizzatori di Parigi 2024 hanno sempre dichiarato di voler rendere l’Olimpiade la più ecosostenibile di sempre. Vero?
“Verissimo, però un po’ ci hanno anche marciato sfruttando la scusa dell’ecosostenibilità. In poche parole, parecchio caos, molta disorganizzazione e ci aggiungo anche troppo nazionalismo”.
Una battuta su Gianmarco Tamberi?
“Conosco Gianmarco da tanto tempo e non l’ho visto piangere così tanto neanche quando si infortunò gravemente alla caviglia nel 2016 a Montecarlo. Ci ha provato, nonostante una condizione fisica davvero proibitiva. Ma Gianmarco è così, non ha voluto mancare, anche per rispetto di un’intera curva dello stadio che era lì per lui”.
Chiudiamo questa tua ultima esperienza olimpica con un nome e un cognome, eleggendo chi per te ha fatto qualcosa di straordinario.
“Nadia Battocletti. Punto! Due prestazioni straordinarie nei cinquemila e nei diecimila metri. Non credo di essere l’unico a prevedere un grande futuro per Nadia”.